I volti di Femart: intervista a Meredith Airò Farulla

Meredith Airò Farulla, attrice di grande esperienza e sensibilità teatrale, si racconta in questa intervista, svelando anche il suo approccio alla scrittura di Jane Austen, che considera una «una donna del proprio tempo, pur avendo, su quel tempo, uno sguardo estremamente lucido e moderno». Per l’attrice, le eroine austeniane sono personaggi complessi e sfaccettati, con lati di luce e lati d’ombra, sempre capaci di insegnare qualcosa sul coraggio, sull’intelligenza e sulle emozioni.
La lettura che darà delle opere della scrittrice inglese nel nostro Omaggio a Jane Austen del 4 ottobre, in occasione del 250 anniversario della nascita, ne farà emergere questi tratti, restituendo al pubblico la profondità e la modernità della sua scrittura.

 

 

 

Quando ha capito che il teatro sarebbe stato il suo lavoro? C’è stato un momento preciso o è stata una decisione che è maturata poco a poco?
Il teatro mi è sempre piaciuto, fin da piccolissima. Ho sempre fatto dei corsi a scuola, elementari, medie e liceo, e quei momenti sono tra quelli che ricordo meglio di tutta la mia infanzia e adolescenza. Ma non ho pensato al teatro come professione fino alla fine delle scuole superiori. Dopo la maturità volevo iscrivermi a filosofia, ma alla fine – non so spiegarmi il perché, forse un’intuizione – ho deciso di tentare il provino per entrare all’accademia teatrale. Quell’anno non sono stata presa. Così mi sono messa d’impegno, ho frequentato dei corsi più seri e ho riprovato l’anno dopo. Sono entrata all’allora Accademia Teatrale Veneta di Venezia. È stata l’esperienza più forte della mia vita.

 

 

 

Nel suo percorso formativo si è confrontata con la Commedia dell’arte che lascia estrema libertà espressiva, ma richiede una rigorosa disciplina. Cosa la affascina di più di questo linguaggio teatrale e cosa invece trova più difficile da restituire al pubblico di oggi?
Ho scoperto la commedia dell’arte poco prima di iniziare a frequentare l’accademia e per me è stata una folgorazione. Quello che all’epoca mi aveva lasciata a bocca aperta era l’energia sprigionata dall’uso che gli attori facevano del ritmo. Nelle parole e nei gesti non c’era pensiero e non c’era nulla di naturalistico, era come una musica, era come venire trascinati in una danza in cui a ogni passo c’è una sorpresa che non ti aspetti. Quello che vedevo non assomigliava a nulla che avessi mai visto prima. E poi c’era la maschera. Ci sarebbero migliaia di pagine da scrivere su questo argomento, mi limiterò a dire che, come mi è stato trasmesso, la maschera non nasconde ma rivela, è una porta per un mondo che non ha a che fare con il razionale, è una torcia che illumina alcuni colori dell’animo umano che di solito tutti preferiamo non guardare.
Durante gli studi in accademia avrei ritrovato tutti questi elementi meravigliosi che mi avrebbero aiutato moltissimo anche in altre forme di teatro. Infatti, parlando in termini più concreti, il lavoro di maschera e di commedia dell’arte è anche un’ottima base tecnica per un attore: le azioni, le parole, tutto deve essere eseguito con estrema precisione in modo da essere comprensibile per lo spettatore, per divertire, sorprendere, commuovere. È una forma di teatro molto faticosa e che regala molta soddisfazione.
Nonostante la forza di questo linguaggio, in grado di di arrivare senza filtri, negli spettacoli di commedia dell’arte che si vedono ancora oggi le storie raccontate fanno spesso riferimento a un passato che ha ormai poco a che fare con la società contemporanea e con i problemi che affronta. Ci sono, tuttavia, registi e compagnie che provano, attraverso il linguaggio della commedia, a guardare il mondo di oggi, a costruire caratteri che conservino la sostanza di quelli tradizionali ma che abbiano una forma più attuale. Non è facile, considerando anche l’immagine stereotipata che ha la commedia dell’arte per gran parte del pubblico.

 

 

 

Durante i suoi studi ha approfondito lo studio della parola, della sua musicalità e della sua forza evocativa: che cosa significa, per lei, dare corpo e vita alle parole in scena
Uno dei principali fraintendimenti di chi comincia a fare teatro e ad affrontare i testi è che le parole siano cose che si dicono. Viene naturale pensare che il testo vada parlato mentre in scena si fanno delle cose, come spostare oggetti, camminare su e giù, fumare una sigaretta. In un teatro ideale, tutto ciò che è in scena dovrebbe essere azione, qualcosa che succede e che modifica lo stato psicofisico degli attori e del pubblico. E così anche le parole. Il testo dovrebbe sempre agire, innanzitutto sull’attore che lo dice. La parola, infatti, non è solo significato e non è solo racconto. Ha un suono, un ritmo, una sua energia che può diventare poetica. L’atto del parlare è, prima di tutto, un fatto fisico. Implica il respiro, il suono della voce, l’articolazione delle consonanti, coinvolge organi, ossa, muscoli ed è, di per sé, una cosa complicata e faticosa per il corpo.
Ogni attore sa bene che i segni scritti su un foglio bianco sono delle tracce che da sole non fanno accadere niente, ma che, se lette nel modo giusto, come una mappa, possono indicare direzioni preziose.

 

 

 

Nel 2018 ha preso parte allo spettacolo La Tragedia di Claudio M, opera contemporanea e teatro, diretto da Nynke van den Bergh nel quale musica antica e nuova si intrecciano nello stile del “cantar parlando” per rivelare, attraverso la lettura delle sue lettere, l’animo di Claudio Monteverdi, uomo ironico e artista geniale. Cosa ha rappresentato per lei questa esperienza e, da attrice, cosa ha trovato di affascinante e attuale nella musica del “Divino Claudio”?
La Tragedia di Claudio M è stata un’esperienza molto particolare. È stato stimolante vedere in prima persona come lavora un ensamble folto di persone con competenze diverse e diverse provenienze: cantanti, musicisti, tecnici. Noi attori avevamo un ruolo di raccordo fra le varie scene. Ma ci era anche stato richiesto di cantare in coro in un paio di momenti e ricordo con affetto l’aiuto e il sostegno dei cantanti per svolgere questo compito.
Ammetto che, fino a prima di quell’esperienza, non conoscevo la musica di Monteverdi e, all’inizio, l’avevo percepita come qualcosa di distante dal mio mondo. La apprezzavo ma sentivo di non avere gli strumenti per capirla. Poi, con il tempo e con l’ascolto, credo di essermene avvicinata. La forza emotiva che mi trasmettevano alcuni madrigali, la teatralità spiccata e drammatica di arie come Il lamento di Arianna hanno finito per sorprendermi e commuovermi. Avevo anche imparato qualche pezzo a memoria, a forza di ascoltarlo, e mi capitava di canticchiarlo fra me e me fuori dalle prove…

 

 

 

Da diversi anni affianca al lavoro di attrice, l’attività di insegnante: che cosa cerca di trasmettere a chi inizia questo mestiere e cosa, a sua volta, impara da loro?
Il lavoro di insegnante è arrivato quasi per caso: mi è stato proposto un ruolo da assistente che, negli anni, mi ha portato a insegnare. L’ho sempre considerato un mestiere molto delicato e pieno di rischi. Un insegnante può essere determinante nella vita di una persona, così come può fare dei danni. Io cerco di fare del mio meglio. Prendo molto dai maestri che considero i più importanti nella mia formazione, all’inizio credo venga istintivo “rubare” non solo gli strumenti tecnici ma anche il modo di insegnare. Col tempo, poi, ognuno scopre il proprio modo, che comunque contiene in sé tutta l’esperienza accumulata. Avendo iniziato solo da alcuni anni il mio percorso di insegnante, cerco di essere il più possibile un esempio positivo per gli allievi, una sorta di sorella maggiore che ha un po’ più esperienza. Mi piace parlare loro di quello che ha funzionato e che funziona per me a livello tecnico, di quanto è importante lavorare tutti i giorni con fiducia – nonostante a volte sembri inutile – e di quanto lavoro e fiducia, alla fine, paghino.
Insegnare è imparare due volte, diceva qualcuno. Ed è vero. Da quando insegno ho imparato molte più cose di quante ne avrei immaginate. Ho fatto degli errori, naturalmente, e ne faccio ancora perché è attraverso gli errori che si impara. Penso che gli allievi siano uno specchio dell’insegnante, nelle loro fragilità ma anche nei loro progressi; quando uno di loro si fida del lavoro e riesce a fare anche un solo piccolo passetto in avanti per me è una cosa bellissima.

 

 

 

Il prossimo 4 ottobre sarà impegnata nell’evento Omaggio a Jane Austen con il soprano Francesca Biliotti (con cui ha già lavorato nello spettacolo La Tragedia di Claudio M) e Elisa La Marca alla chitarra. Nei testi che interpreterà, emergono le contraddizioni di Jane Austen tra ironia, romanticismo e critica sociale: qual è l’aspetto della scrittura della Austen che più la colpisce e che desidera far arrivare al pubblico attraverso la sua lettura?
Di Jane Austen ho amato soprattutto l’elegante ironia e l’intelligenza. Trovo i suoi romanzi molto teatrali, perché tutto in essi è scarno, essenziale. Non ci sono molte descrizioni ricche di particolari, la psicologia dei personaggi, invece, è delineata in maniera precisa e tagliente e ogni piccolo evento narrato determina scelte e cambiamenti. Le eroine femminili di Jane Austen, come tutti i personaggi nati da grandi scrittrici e scrittori, sono umane e complesse, hanno lati di luce e lati d’ombra, talvolta suscitano simpatia, talvolta risultano insopportabili. Emma Woodhouse, ad esempio, vive una profonda trasformazione nell’arco del romanzo, passando da un vanitoso egocentrismo, che soffoca e inganna la sua intelligenza, a una lucida e matura consapevolezza dei propri limiti ma anche dei limiti dell’intelligenza stessa, cui spesso sfuggono la mutevolezza e la complessità dell’animo umano. Elizabeth Bennet, invece, è descritta dalla stessa Jane Austen come “la creatura più deliziosa mai apparsa in un volume a stampa”. È una giovane donna dall’animo indipendente e dall’acuta intelligenza, pur senza essere una ribelle nel senso stretto del termine: è, infatti, perfettamente inserita nel sistema di valori della propria epoca, sa esprimere il proprio punto di vista con forza e andare contro corrente pur rispettando gli usi e le convenzioni sociali. Senza contare che il suo arco narrativo termina con un matrimonio.
Ho l’impressione che Jane Austen sia una donna del proprio tempo, pur avendo, su quel tempo, uno sguardo estremamente lucido e moderno. Lotta in quanto donna scrittrice per far pubblicare i propri lavori, deride con occhio attento e lingua affilata la superficialità e l’ignoranza di uomini e donne della società dell’epoca; ama però anche partecipare ai balli, vestire con eleganza e fare pettegolezzi. E non smette mai di credere nell’amore romantico, come scrive nelle lettere alla nipone Fanny Knight, dalle quali si può dedurre che Jane, pur non essendosi mai sposata, abbia fatto esperienza diretta del sentimento dell’amore e delle sue conseguenze.
Io mi sono innamorata di Jane Austen e mi auguro che, a chi ascolterà la selezione che ho fatto dei suoi testi, ne arrivi un piccolo onesto ritratto.