L’attore Paolo Mutti sin da bambino ha coltivato l’amore per la recitazione, nato grazie a un videoregistratore, con “la spia sempre accesa” che ha cambiato la quotidianità della famiglia.
L’entusiasmo di allora è ancora vivido nel suo percorso artistico che unisce teatro, cinema, doppiaggio e attività didattica. Lo si coglie in questa intervista esclusiva, dove si racconta attraverso i ricordi d’infanzia, gli incontri con i suoi grandi maestri, punti di riferimento imprescindibili, svelandoci qual è il suo legame con le opere di William Shakespeare, quali sono i suoi attori preferiti e un suo grande desiderio.
Quando ha scoperto di voler fare l’attore?
Ricordo che, quando avevo 4 anni, il mio babbo venne a casa con un grande televisore e un videoregistratore, che tra posseggo ancora. Rammento perfettamente l’emozione che provai, una novità assoluta che avrebbe cambiato la quotidianità della mia famiglia. Da quel giorno mio padre cominciò a registrare sulle VHS tutti i bei film, tutti i cartoni Disney che trasmettevano in televisione.
Ebbi anche la fortuna di avere due fratelli più grandi che a loro volta guardavano un sacco di queste cassette registrate, quindi stando con loro iniziai ancor prima delle elementari a farmi una cultura cinematografica, a imparare le battute dei film a memoria, a conoscere i nomi degli attori, dei registi e dei doppiatori. Con mio fratello ancora oggi mi diverto a citare pellicole per vedere se le riconosce.
Forse è da allora che mi sono reso conto che questa sarebbe stata la mia vita, la spia sempre accesa, la passione che diventa quasi ossessione, l’aria che ti fa respirare.
Il suo percorso artistico spazia dal teatro al cinema fino al doppiaggio. Come si fa, con linguaggi così diversi, a cogliere e trasmettere al pubblico le motivazioni e le relazioni profonde dei personaggi? Ed è necessario anche per il doppiatore cogliere gli aspetti psicologici del personaggio?
Ogni attore ha le sue tecniche e il suo vissuto. Non c’è una regola universale per raggiungere l’essenza di un personaggio. C’è chi scava nel proprio passato o nel passato di una persona vicina per trovare delle emozioni che magari non ha mai vissuto, ma che gli occorrono per divenire tutt’uno con colui deve rappresentare; c’è anche chi si estranea completamente da quest’ultimo, distinguendo sempre il proprio “io” da tutto il resto.
La cosa fondamentale è che, quando si termina, non ci si porti a casa tutte le scorie e le negatività incontrate durante questo studio: non sono fardello nostro, bensì di ciò che siamo e diventiamo durante le ore di lavoro.
Il teatro e il cinema hanno codici assolutamente diversi e bisogna plasmarsi in base a dove ci si trova. Il teatro racconta la verità non necessariamente attraverso la realtà; il cinema invece è assolutamente più realista, anche se non del tutto. Io credo che un bravo attore di teatro possa lavorare nel cinema; del contrario non sono così convinto.
Il doppiatore invece è tutta un’altra pasta: deve obbligatoriamente possedere una grande tecnica vocale, dizione, intelligenza, furbizia, esperienza. Non ha bisogno di immedesimarsi, anche perché non ha il tempo né la possibilità. Deve sottostare ai tempi che un’altra persona gli dà, quindi è fondamentalmente un lavoro tecnico e di bravura. Un film si gira in vari mesi, mentre il suo doppiaggio forse in una settimana; giusto per capire le tempistiche.
Per decenni la scuola italiana è stata la più grande e rinomata al mondo. Da qualche tempo, purtroppo, vi è un vistoso calo della qualità.
L’attore vive storie che non gli appartengono. Quanto è importante, se per lei lo è, “calarsi” nelle vite degli altri anche nella quotidianità, al di fuori del palcoscenico o del set?
È un lavoro che non ti abbandona mai, quello della recitazione. Bisogna sempre leggere, ascoltare cose nuove e soprattutto osservare. Sempre. Attraverso l’osservazione si possono scoprire e immaginare vicoli nascosti nell’esistenza di tutti quelli che ci passano accanto, per poi farli propri.
Ricordo in accademia, durante i primi giorni di corso, che un’insegnante ci disse di andare in stazione per analizzare più persone possibili: come camminavano, come gesticolavano, come parlavano, come si comportavano. Sembrava una richiesta assurda, ma poco dopo ne capii il vero scopo: studiare e vivere il corpo di un’altra persona, magari di età e sesso diverso dal tuo. Tutto ciò crea un bagaglio emozionale e comportamentale da cui si potrà attingere nel corso della propria carriera.
Gli imitatori sono maestri in questo ma sono un caso a parte. Non bisogna mai stancarsi di essere curiosi. Quindi sì, un attore si cala sempre nelle realtà che lo circondano, anche le meno interessanti. Deformazione professionale.
Ha lavorato con maestri come Gabriele Lavia, Gabriele Salvatores e il compianto Robert Wilson. C’è un insegnamento o un episodio che porta con sé?
Robert Wilson era un visionario, unico nel suo genere. Mi dispiace molto che sia mancato recentemente, ma nel contempo ha lasciato tanto al teatro americano e mondiale. Ricordo quando ci fece fare un esercizio in cui si doveva camminare da una parte all’altra di una stanza in tempi differenti, come dieci secondi, un minuto, cinque minuti e dieci minuti: tutto questo senza mai interrompere il flusso dei movimenti. Era veramente estenuante, ma questo ci fece capire quanto ritenesse importante per i suoi attori la coscienza del proprio corpo e la concentrazione nel gestirlo. Non si può mai abbassare la guardia, bisogna lavorare al 100% anche per tre ore di spettacolo.
Salvatores è una persona estremamente umile e gentile, oltre che un regista che ha consegnato dei capolavori al nostro cinema. A parte Mediterraneo, che è il più famoso anche per l’Oscar, ricordo sempre anche Nirvana e Io non ho paura, che secondo me sono molto belli.
Per quanto riguarda Gabriele Lavia, porterò sempre con me i due anni di lavoro che ho trascorso con lui. Collaborare con lui è la più grande scuola che si possa fare. Lo trovo un po’ troppo, diciamo, invasivo con le interpretazioni degli attori, ma a livello spaziale, di prossemica e intelligenza di palco è inarrivabile. Portava con sé una serie di regole e malizie nei movimenti e nella gestione del corpo che ho cercato sin da subito di far mie.
Poi a cena ci intratteneva parlando delle sue letture, dei film che guardava la notte quando rientrava in albergo. Insomma, un instancabile lavoratore dell’arte con una cultura smisurata e una grande fame di palcoscenico. Una macchina sempre in movimento.
Non scorderò mai quando disse: «Un giorno il cinema cesserà di esistere perché arriverà qualcosa di nuovo; la televisione chiuderà i battenti perché le informazioni potranno arrivare ancora più rapidamente; il digitale fagociterà tutto, e poi magari anche qualcosa che andrà oltre al digitale. Ma il teatro non se ne andrà mai, poiché è nato e morirà con l’essere umano: perché rappresenta l’uomo, che racconta l’uomo.» Per me, Gabriele Lavia è e sarà sempre il mio unico Maestro.
C’è un attore che ammira particolarmente o che considera un modello da suggerire ai suoi allievi?
Di attori italiani ho sempre amato i vari Gassman, Tognazzi, Sordi, Manfredi, Gino Cervi, con una spiccata predilezione per Enrico Maria Salerno. Carmelo Bene per me è stato un po’ come i Pink Floyd nella musica: un fulmine a ciel sereno, non comparabile a nulla. Unico.
Per ciò che concerne gli attori contemporanei, sarò banale, ma secondo me Favino è un mostro di bravura, sa essere tutto e tutti. Sarà ricordato alla stregua di quelli già citati. È un vanto nazionale e spero di poterlo conoscere un giorno.
Nello spettacolo Omaggio a Shakespeare sarà impegnato in letture del grande drammaturgo inglese. Quali aspetti della sua opera la affascinano di più come attore e formatore? Ha un’opera preferita e, se sì, perché?
Shakespeare, lo sappiamo tutti, è un genio. Ciò che ha scritto, solo leggendolo, ci rimanda in un tempo passato di odori, sensazioni, colori antichi. Sempre vivi. Tutti gli attori si devono misurare con lui e con i suoi testi.
Ci sono delle traduzioni in italiano meravigliose, che non fanno rimpiangere l’originale, anzi; la musicalità e la ricchezza della lingua italiana ci permettono di creare delle sfumature clamorose con le sue parole, tanto che delle sue battute sono entrate nell’immaginario collettivo anche dei non addetti ai lavori.
Prima c’è William, poi c’è tutto il resto.
La mia opera preferita è il Macbeth, un po’ perché è il primo testo classico che ho affrontato seriamente, poi per la bellezza dei suoi versi e della metrica. Inoltre racconta la storia di un uomo che si è fatto accecare dalla bramosia di potere, abbandonando tutto il resto; una tal sicumera che ha portato lui e la moglie sino alla morte. Credo che ciò sia uno dei problemi più gravi non solo dell’uomo contemporaneo, ma proprio dell’essere umano. Per tal motivo questo testo è immortale. Subito dopo di lui ci sono La tempesta, Giulio Cesare, Coriolano e anche Riccardo III.