I volti di Femart: Chiara Granata

L’arpista Chiara Granata, interprete di musica antica e barocca, concepisce l’arte come un dialogo vivo tra performer e spettatore. In Barocco in bilico la sua visione prende forma: il concerto non è solo ascolto, ma esperienza creativa, dove percorsi ed emozioni si intrecciano liberamente, senza schemi imposti. Un invito al pubblico a riscoprire meraviglia, sorpresa e libertà di interpretazione in ogni nota.

 

Lo spettacolo Barocco in bilico mette in dialogo due mondi apparentemente lontani, come l’arpa barocca e i trampoli. Da dove nasce l’idea di unire strumenti e linguaggi così diversi?
Quando suono o racconto la musica del primo barocco cerco sempre di rendere evidente la sua componente di rottura rispetto alla tradizione, alle aspettative d’ascolto, alle convenzioni. In un termine è musica d’avanguardia, e i suoi autori ne sono consapevoli: sentono di superare continuamente un limite, rompendo continuità ritmica, consequenzialità armonica e omogeneità sonora. L’arte dei trampoli rende evidente qualcosa di analogo: il superamento delle proporzioni corporee, la tensione continua per mantenere l’equilibrio. Questo slancio verso l’estremo è ciò su cui si costruisce Barocco in bilico.

 

Come è nata e si è sviluppata la collaborazione con la performer Giulia Sarah Gibbon?
Con Giulia ci siamo conosciute diversi anni fa durante una produzione d’opera in Germania, L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi. Nessuna delle due aveva un ruolo da protagonista nello spettacolo: io ero tra gli strumenti del basso continuo, lei preparava le parti sceniche e compariva in alcune sequenze ginniche. Eravamo però la parte fondamentale di quel motore che muove e tiene insieme lo spettacolo. Ogni giorno eravamo le prime ad arrivare in teatro: lei iniziava il riscaldamento, io l’accordatura. Siamo prima di tutto lavoratori: sottoponiamo il nostro corpo a rigorosa preparazione, le nostre giornate sono accomunate dall’affinamento costante del gesto. Questo avviene fuori dalla scena, e abbiamo provato a metterlo in scena.

 

Rigore e libertà espressiva: nella sua esperienza di interprete di musica antica, come si traduce questa tensione?
Passiamo tanto tempo sulle fonti: capire un segno, darne un’interpretazione plausibile, sagomare la propria performance tenendo conto delle cronache storiche. Dopodiché il nostro è un lavoro di traduzione: ossia, compreso il gesto bisogna renderlo evidente con un linguaggio chiaro. Questo capita a tutti gli strumentisti, ma a maggior ragione con l’arpa, che ha pochissime fonti dirette, esegue repertorio tratto da altri strumenti e quasi mai può prendere una partitura ed eseguirne tutte le note. Deve tradurre nel proprio idioma il contenuto musicale. È come la ricostruzione dello scheletro di un dinosauro, ma con solo un paio di ossa. La libertà creativa è questa immaginazione che porta a completare lo scheletro… in modo che stia in piedi.

 

La riflessione di Frescobaldi, Non senza fatiga si giunge a fine, è il filo conduttore del progetto. C’è un legame tra questa “fatica” creativa e la performance artistica?
Nel nostro spettacolo siamo partite da questa doppia negazione che Frescobaldi appunta alla fine di una composizione: “non senza fatica”. È un’annotazione molto singolare perché sposta l’attenzione – cosa molto rara in quegli anni – sull’esecutore. Ci è sembrato che in quella descrizione ci possa essere una visione estetica: prima ancora del suono c’è la tensione fisica e mentale nel restituire la composizione, e questo ha già un valore estetico prima della bellezza della musica. In Barocco in bilico mettiamo in scena anche ciò che appartiene a questa dimensione, che di solito è dietro le quinte. È la ripetizione nello studio di un musicista, il riscaldamento del corpo per il ginnasta. Mettiamo in scena persino l’ascesa sui trampoli, che di solito nessuno vede, perché incontriamo i trampolieri già elevati e nessuno sa come salgono! L’ascesa sui trampoli è forse il momento più forte del nostro spettacolo.

 

Barocco in bilico invita il pubblico a oscillare tra ascolto e visione, tra concerto e performance. È anche un invito a ripensare il modo in cui percepiamo e viviamo l’arte dal vivo?
Abbiamo costruito uno spettacolo in cui i rimandi tra le nostre arti sono molti, e i quadri in cui li abbiamo organizzati raccontano i diversi momenti della creazione della performance: costruire, vagare, comunicare, allestire, tentare e riprovare, osare. Sono tutte parole in cui qualunque musicista o performer, al di là della propria specifica arte, si può rispecchiare. Tutto questo però è solo suggerito, rimane astratto, e ciascun spettatore può muoversi con libertà tra ascolto e visione, costruendo abbinamenti che noi non abbiamo previsto. Di sicuro c’è l’idea di ripensare la forma del concerto, che nella sua forma prevedibile spesso rischia di mancare l’oggetto, ad esempio la meraviglia, che è l’obiettivo del barocco. Tutto questo senza fare pedagogia, lasciando sempre lo spettatore in una posizione libera e creativa.

 

Lei ha firmato uno studio fondamentale sull’arpa Barberini, strumento leggendario del Seicento romano. Cosa la affascina di più di quell’arpa “grande, tutta intagliata e dorata”?
Quello che mi affascina di questo strumento, di cui ora sappiamo molte cose, è proprio ciò che non sappiamo. Abbiamo di fronte un’arpa così imponente, con una sorta di scena di teatro scolpita nella colonna, il colore nero e oro che comunica solennità e importanza, e la tavola armonica incurvata dalla tensione delle corde per più di 400 anni. L’arpa Barberini è un grande spettacolo per gli occhi, ma è muta: non si può rimettere in tensione uno strumento così antico, quindi il suono non lo sentiremo mai. Quest’arpa ci racconta il nostro rapporto con il passato: lo osserviamo, cerchiamo di avvicinarlo per comprendere l’umanità che ci ha preceduto, ma non lo raggiungiamo mai del tutto.