I volti di Femart: Iskon ensemble

Dalla genesi del nome Iskon alle esperienze tra festival, collaborazioni internazionali e la prima esibizione in Italia, Milanka Nastasović – voce e portavoce dell’ensemble – ci racconta la storia, le passioni e le ispirazioni che da sempre animano il gruppo. Le sue parole ci offrono uno sguardo profondo nel mondo dell’ensemble, dalla scoperta dei suoni antichi ai legami culturali che ispirano i musicisti, fino alla gioia di far rivivere la musica tradizionale balcanica davanti a un pubblico sempre nuovo, in ogni angolo del mondo.

 

 

Come è nato Iskon e qual è l’origine e il significato del nome?
La parola iskon indica l’inizio di qualcosa, la fonte da cui tutto ha origine, la radice di ogni cosa. In serbocroato il termine ha una sfumatura arcaica e poetica, evocando la formula biblica “in principio…” o l’incipit delle fiabe “c’era una volta…”.
Ci siamo conosciuti durante gli studi universitari, tra il 1999 e il 2000. Erano tempi difficili: il Paese era appena uscito dalla guerra e dalla dittatura, la povertà era diffusa e viaggiare restava complicato. La musica, per noi, è stata un mezzo per restare normali, per sentirsi bene e per affrontare una realtà cupa. Ci ha anche aperto le porte all’estero, permettendoci di partecipare a festival, incontrare altri musicisti e vivere nuove esperienze, proprio come fanno i giovani di ogni tempo.

 

 

 

Tra i tanti strumenti della tradizione balcanica che suonate, ce n’è uno che sentite rappresentare davvero l’essenza del vostro suono?
Domanda difficile! Ne abbiamo scelti due: la frula e il kaval, strumenti a fiato strettamente imparentati e con un antenato comune. Insieme al gusle (violino monocorde), rappresentano gli strumenti tradizionali di base, i più diffusi in tutto il territorio balcanico. La frula e il kaval erano suonati dai pastori durante la custodia delle greggi e, nelle zone rurali, erano utilizzati nei momenti di svago, nei rituali o per accompagnare le danze, spesso insieme alle cornamuse. Il kaval, con il suo suono ruvido e scuro che ricorda la voce umana, è perfetto per accompagnare un cantante o improvvisare melodie alternandosi con altri kaval.
Gli altri strumenti si sono aggiunti solo in seguito: all’inizio, erano questi due a sostenere la voce umana. Gli strumenti moderni “occidentali” arrivarono solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, soprattutto dopo la Grande Guerra.

 

 

 

La vostra missione è mantenere viva e attuale la musica tradizionale. Come reagisce il pubblico di fronte al vostro lavoro di ricerca?
Alla gente di solito piace vedere il risultato finale, immediatamente fruibile, perché tutti noi cerchiamo il piacere istantaneo. Raramente si mostra interesse per il lungo e faticoso processo che porta a quel risultato: la ricerca della musica popolare antica richiede tempo e pazienza. Per noi, però, questo è la vera ricompensa, perché è un lavoro che amiamo.
La musica popolare si discute tra musicisti e musicologi, ma anche il pubblico spesso gradisce qualche spiegazione. Perciò, se lo spazio, il tempo e la disponibilità degli ascoltatori lo permettono, durante i concerti diciamo sempre qualche parola su ogni brano. In genere, il pubblico apprezza.
Abbiamo inoltre l’abitudine di adattare le esecuzioni all’atmosfera del luogo e all’energia che gli ascoltatori sanno trasmettere.

 

 

 

Collaborate spesso con artisti internazionali. Alcune di queste collaborazioni hanno avuto un impatto particolarmente significativo sul vostro lavoro?
Nel corso dei suoi 24 anni di attività dell’ensemble, abbiamo incontrato un piccolo cerchio di persone, non tutte provenienti dal mondo della musica popolare, eppure tutte capaci di apprezzare ciò che facciamo, così come noi apprezziamo il loro lavoro.
Durante i festival, ci siamo ritrovati con loro in jam session notturne, al di fuori dei programmi ufficiali: momenti intensi e indimenticabili che hanno profondamente influenzato la nostra visione della musica. Da queste esperienze è nata l’idea di realizzare un album insieme ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.
La pandemia ci ha spinti a collaborare online, trasformando una necessità in opportunità, fino a dar vita al nostro album Drugovanje, pubblicato nel 2021, con la partecipazione di musicisti italiani, francesi e messicani. Un vero incontro di culture e sonorità diverse, che celebra l’amicizia, la condivisione e il dialogo musicale oltre ogni confine.

 

 

 

Questa è la vostra prima volta in Italia. Come vi sentite a presentare la vostra musica al pubblico italiano?
Sì, è la nostra prima volta, e nell’ensemble si respira uno stimolante fermento: un misto di curiosità, attesa e un pizzico di nervosismo. Va detto che non siamo musicisti professionisti, ma abili dilettanti, come lo erano i musicisti popolari di un tempo. Conoscendo la qualità degli artisti presenti al festival, ci sentiamo davvero onorati di esibirci.
Con il pubblico straniero, la sfida principale è sempre la lingua: le canzoni non possono trasmettere pienamente il significato e la bellezza dei testi, quindi è la melodia a “fare il lavoro duro” – e lo fa sempre con efficacia. Gli amici italiani che abbiamo incontrato ci sono sembrati persone brillanti, positive, spensierate e di buon cuore. Speriamo che questa atmosfera ci accompagni durante il nostro concerto, permettendo a noi e al pubblico di divertirsi e di incontrare persone meravigliose.

Quali aspetti dell’Italia trovate più affascinanti o piacevoli?
Parlare dell’Italia non è facile: i superlativi sono così tanti e c’è il rischio di scivolare nei cliché. È un Paese bellissimo, e per di più così vicino a noi. Le persone dell’ex Jugoslavia tendono ad amarla più di molti altri Paesi “occidentali”. La nostra storia culturale è da sempre intrecciata a quella della Repubblica di Venezia: la Serenissima ha lasciato profonde tracce nella poesia popolare, nella narrativa e nella memoria collettiva dei nostri racconti. L’antico termine con cui si indicavano gli italiani era “latini”, e in alcune regioni è ancora in uso.