Ich Habe Genug – BWV 82

Bach e il sentimento della morte

Programma

Georg Philipp Telemann (1681-1767)
Concerto per oboe e archi in re minore TWV 51 d1
Adagio –Allego-Adagio-Allegro

Carl Philipp Emanuel Bach (1714-1788)
Triosonata in si minore
Allegro–Adagio-Presto

Johann Sebastian Bach (1685-1750)
Cantata 82 – Ich Habe Genug
Basso, oboe e archi

Aria –Ich Habe Genug – Recitativo
Aria – Schlummert ein – Recitativo
Aria – Ich Freude mich auf meinen Tod

Esecutori

Patrizio La Placa, baritono

Gregorio Carraro, oboe

Gabriele Politi, Iben Bogvad Kejser, violini

Pietro Meldolesi, viola

Cristina Vidoni, violoncello

Mauro Zavagno, violone

Donatella Busetto, organo

Presentazione

Il Concerto per oboe e archi che apre il programma appartiene all’ultimo periodo compositivo di Telemann, fecondo compositore e abile imprenditore di sé stesso, e costituisce un perfetto esempio della sua Arte, un’esatta combinazione di colto diletto e gusto equilibrato. Il primo tempo colloca immediatamente all’attenzione dell’ascoltatore le potenzialità liriche dello strumento, offrendo all’esecutore la possibilità di variare e abbellire la semplice linea melodica secondo libere evoluzioni espressive che destarono e tuttora destano ammirazione.

L’adagio centrale, seppur breve, rivela una particolare bellezza: in poche battute una sobria linea melodica, esposta dall’oboe, è ricamata da complesse armonie che raggiungono l’apice espressivo in una mutazione enarmonica assolutamente inaspettata e di grande effetto espressivo. Un trascolorare dell’ambiente tonale che ben si raccorda con la riflessione sulla morte e l’idea di trasfigurazione che le appartiene, e che troveremo come ambiente espressivo dominante proprio in Ich Habe Genug.

I due movimenti pari invece, entrambi senza indicazione di tempo, s’accendono di quel virtuosismo scenico ancorché tecnico, imponendo allo strumento solista un linguaggio a mezza via tra la sontuosa solennità tedesca e quella cantabilità italiana spesso interrotta da progressioni molto vicine alla prassi compositiva della gloriosa Venezia di Vivaldi.

All’interno di questo progetto, incentrato sulla figura di Bach, si colloca la Triosonata in si minore di Carl Philipp Emanuel. Figlio prediletto di Johann Sebastian, di precocissime doti musicali, avrà il compito di traghettare l’arte paterna attraverso le evoluzioni stilistiche dell’imminente Classicismo.

Dalla sua ampia produzione che comprende un vasto repertorio vocale e strumentale si è scelta una sonata per due strumenti di canto e basso continuo, forma compositiva già lungamente consolidata ma che trova nuova linfa vitale nell’espressività suggerita dal nascente stile classico.

Le voci si muovo con grandiosa semplicità articolandosi in un gioco imitativo che propone linee melodiche ordite a mezza via tra il severo contrappunto e il più innovativo gusto dello sturm und drang. Così pure nel secondo tempo, nei misurati abbellimenti e ancor più nelle legature originali imposte alle voci, si legge quell’irrequieto sentire che più avanti si ritroverà in Haydn, in Mozart, in Beethoven. E’ nell’Adagio centrale però che si manifesta la particolarità di scrittura che rende questo autore unico e riconoscibile. Nell’ultimo tempo, in antitesi all’arditezza formale dei precedenti, abbandona quel desiderio d’innovazione e intuizione del futuro, piegandosi alla tradizione della Giga, indicata però come Presto allo scopo di suggerire agli esecutori di non intendere in alcun punto e per nessun motivo, un’ovvietà, ma anzi, ri-cercarne il giusto affetto ed una vezzosa grazia.

Nel vasto repertorio che costituisce il corpus musicale della produzione di Bach, il genere della cantata sacra occupa uno spazio di assoluto rilievo; il temine “cantata” però,  non fu utilizzato da Bach per designare tali composizioni, indicate piuttosto come mottetti o concerti spirituali o Kirchenmusik, in quanto il temine indicava il genere il repertorio solistico da camera, di repertorio profano, e solo in epoca più tarda, per estensione, il termine entrerà nell’uso comune.

L’opera BWV 82, composta nel 1727 ed eseguita in occasione della Festa per la Purificazione di Maria, appartiene al ciclo di cantate del periodo di Lipsia, ovvero a quella fase produttiva di Bach che segnò l’evoluzione delle strutture e del materiale testuale che, originariamente di matrice biblica, veniva ora composto in prosa o poesia di libera invenzione.

La nuova tipologia, nella struttura dell’Aria col da Capo e Recitativo, era stata introdotta da Neumeister, Pastor Primarius ad Amburgo, ed era ispirata proprio ai canoni della già diffusissima Opera Italiana. Ich Habe Genug inoltre appartiene a quell’esiguo e particolarissimo numero di cantate che Bach ha composto per voce sola e senza la presenza del coro, ovvero della forma del corale.

Ich habe genugHo vissuto abbastanza. Il testo della cantata, di autore ignoto, si riferisce all’episodio evangelico della presentazione di Gesù al Tempio ed è una parafrasi del Cantico di Simeone: Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza

Attraverso il testo e il tessuto musicale, Bach traccia un percorso meditativo sull’immagine della morte e sul significato che questa assume per il credente.

Nella prima aria, spesso accostata a Erbarme dich, mein Gott della Passione secondo Matteo, la linea melodica dell’oboe, che introduce e chiude l’intero primo movimento, contrappunta e avvolge la voce in un ideale abbraccio, quasi di consolazione. La progressione discendente della linea del basso e il denso intreccio armonico tra le parti, concorrono ad esprimere sentimenti di dolore e stanchezza, ma sempre composti, dignitosi, mai ostentati, vissuti in una dimensione spirituale di autentica intensità.

Nella seconda aria, la “famosa berceuse che ha fatto la fortuna dell’opera” (Alberto Basso), l’oboe tace e il fievole e vellutato ondeggiare degli archi accompagna l’abbandono ad un sonno ristoratore, nel desiderio del distacco dal mondo, nella sicurezza di poter infine assaporare “dolce pace e quieto riposo”.

Il vivace e repentino pronunciarsi dell’ultima aria conclude l’opera in un gesto risoluto e liberatorio verso la serenità di un atteso e definitivo accordo maggiore.

Il clima di meditazione, pur nella composta e dolente rassegnazione, si pervade in maniera inaspettata di una luce particolare: la certezza che solo la morte può far cessare le sofferenze dell’uomo che ha vissuto secondo la Parola e schiudere così gli orizzonti di una vita nuova, finalmente nella vera pace e autentico riposo. Una morte percepita non come sottomissione a un castigo, al terrore di un inestinguibile dolore, non la prefigurazione d’indicibili pene, ma con il senso di fiducioso abbandono, la volontà di aderire alla compiutezza della fine, nell’impazienza dell’anima, nella certezza di aver adempiuto a un progetto divino.

Il tema della morte è affatto nuovo per i compositori barocchi  e Bach ne risulta particolarmente affascinato: infatti molte altre composizioni portano la traccia di questo riferimento. Ma in lui assume un’espressività distintiva, che sopravanza il quadro fisso di convenzioni che regolano l’espressione degli affetti in maniera oggettiva e distaccata.

Dall’ordito delle formalità, Bach riesce a far trapelare un’intima, personale partecipazione al sentimento della morte, così profondamente umano, così intensamente vissuto, così umanamente condiviso, da esaltarne la più universale natura, oggetto di riflessione che trascende epoche e civiltà.