I volti di Femart: Alberto Fasoli

L’attore Alberto Fasoli, protagonista dell’evento Omaggio a Casanova in programma sabato 8 novembre a Villa Pace di Tapogliano, dove leggerà alcuni brani tratti dalle memorie dell’intellettuale veneziano, racconta, in questa intervista in esclusiva, dei suoi esordi con Giuseppe Emiliani, del legame profondo con il palcoscenico, che considera luogo di conoscenza e libertà.
Nel teatro trova ancora oggi la promessa mantenuta di una vita piena, fatta di ricerca, ascolto e continua scoperta di sé attraverso i personaggi.

 

Parlando di sé, fa riferimento a una citazione di Al Pacino: “Mi sento più vivo in teatro che in qualsiasi altro posto”. Cosa le ha promesso in gioventù il teatro, tanto da portarla a lasciare gli studi di Scienze politiche e dedicarsi completamente alla scena, che implica una forma altrettanto rigorosa di conoscenza?
Quando decisi che il mestiere dell’attore sarebbe diventato la mia professione, ero uno studente di Scienze politiche, un po’ confuso ma con un buon rendimento. Contemporaneamente frequentavo i primi laboratori di recitazione. A metà del corso di laurea mi resi conto che quello che realmente volevo fare nella vita era recitare. Così abbandonai l’università e iniziai presto a lavorare con la mia prima compagnia professionale, una cooperativa come tante realtà teatrali nei primi anni Ottanta.
Il lavoro in teatro, dal punto di vista economico, non era affatto remunerativo: guadagnavo pochissimo e mi ammazzavo di fatica davanti e dietro le quinte. Il teatro mi prometteva giornate senza orari, un impegno faticosissimo fatto non solo di studio e di applicazione intellettuale, ma anche di pura manovalanza sopra e sotto il palcoscenico. La gavetta che ho conosciuto in teatro mi ha insegnato l’umiltà, il rispetto per gli altri, l’importanza dell’ascolto, il concetto di “noi” piuttosto che di “io”. Ma la gioia che mi dava lo stare sulle tavole del palcoscenico, la soddisfazione di cercare di essere – non diventare – qualcun altro da me, è sempre stata una sensazione che non si può quantificare. Ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, mi regala un profondo senso di pienezza interiore.

 

Queste promesse sono state mantenute?
La promessa principale che il teatro mi ha fatto ai miei esordi si rinnova ogni volta che salgo su un palcoscenico. Mi sento un privilegiato: amo a dismisura il mio mestiere e vado a lavorare con il sorriso. Ogni volta che interpreto un personaggio, anche alla centesima replica, scopro nuove sfumature, dettagli che ancora non erano emersi. È qualcosa di meraviglioso, che riempie la mente e l’anima. È l’essenza stessa del lavoro dell’attore: la consapevolezza che in questo mestiere non si smette mai di imparare.

 

Ha fatto la sua “gavetta” con il regista e drammaturgo Giuseppe Emiliani, con il quale è nato un lungo sodalizio artistico. Che ricordo ha di quei primi anni?
Giuseppe Emiliani per me è, prima di tutto, un amico. E poi un regista e drammaturgo eccellente, di grande sensibilità umana e artistica. Ai miei esordi mi fece comprendere l’importanza dello studio, dell’approfondimento, del bisogno di scavare, di andare a fondo nella materia del testo per costruire un personaggio. Un regista non è colui che muove i personaggi sulla scena, ma colui che, senza suggerirti le intonazioni, ti consegna la chiave per aprire lo scrigno del personaggio e guardare al suo interno.

 

Come si approccia a un nuovo personaggio? Segue un rituale o c’è un momento o un gesto che segna l’inizio del suo lavoro di preparazione?
Ogni personaggio è la scoperta di un territorio pieno di risorse. È una sorta di indagine, anche quando si affronta un ruolo già interpretato in passato. È un’isola del tesoro su cui si approda: bisogna saper cercare, non fermarsi alla superficie, non sottovalutare nessun indizio. E anche quando si è convinti di aver trovato la chiave giusta, è necessario continuare a cercare, provare altre chiavi che possano aprire nuove porte, nuovi cassetti nascosti, altre stanze inesplorate. Il momento della sintesi arriva, certo, ma solo dopo aver percorso tutte le strade possibili. Solo allora puoi davvero dare del “tu” al tuo personaggio.

 

Ha interpretato un personaggio con cui ha sentito un’affinità caratteriale, con cui si è sentito in sintonia?
Sono molti i personaggi che ho amato, quasi tutti, anche quelli più piccoli o apparentemente “di servizio”. Ne voglio citare un paio, più recenti. Hugh, l’amico fraterno di Katherine, protagonista del testo Apologia dell’inglese A. K. Campbell, interpretata magistralmente da Elisabetta Pozzi. Uno spettacolo di drammaturgia contemporanea, prodotto dal Centro Teatrale Bresciano nel 2019. Hugh sembra un personaggio secondario, ma in realtà è necessario a tutti: un punto di equilibrio, tenero e forte insieme, ironico e saggio. Ho aderito con tutto me stesso a quella figura.
Un altro personaggio che ricordo con particolare affetto è Pilade, l’amico fedele e leale alleato di Oreste in Ifigenia in Tauride di Goethe. Qualche anno fa recitavo al Teatro Olimpico di Vicenza; una sera venne ad assistere alla rappresentazione Jacques Lassalle, regista di fama internazionale ed ex direttore della Comédie-Française. Dopo lo spettacolo mi fece molti complimenti e mi propose di interpretare Pilade nel suo prossimo allestimento con il Teatro Stabile del Veneto. Quella notte non riuscii a dormire per l’emozione: ero stato scelto sul campo, aveva vinto la meritocrazia – una cosa, purtroppo, non così frequente.

 

Da veneziano, qual è la sua opinione su Giacomo Casanova? Lo considera un personaggio moderno, più vicino a noi di quanto si possa immaginare, oppure un uomo del suo tempo, forse anche un po’ mitizzato?
Casanova è un’icona del Settecento europeo e, per certi versi, un personaggio sorprendentemente moderno. Oggi sarebbe il perfetto rappresentante di una società in cui conta più “apparire” che “essere”. Spopolerebbe sui social, dividendo ammiratori e detrattori. Viaggiando per l’Europa e lavorando al servizio di avvocati e diplomatici, fu una sorta di ribelle, un freelance ante litteram, che frequentava le grandi corti europee accettando la protezione di potenti della politica e del clero. Non fu celebre in vita: il mito nacque solo dopo, con la pubblicazione postuma delle sue memorie.
Personalmente non lo amo, ma come personaggio da interpretare è ricchissimo di stimoli e suggestioni.

 

I volti di Femart: Tommaso Luison

Il violinista e ricercatore nonché esperto tartiniano Tommaso Luison, racconta il suo percorso tra lo studio delle fonti originali e l’esecuzione, svelando come Giuseppe Tartini, oltre a grande violinista, fosse didatta e pioniere della musica europea. La sua eredità continua a influenzare interpreti e studiosi, testimoniando il valore universale del dialogo tra culture e generazioni.

 

Il suo percorso unisce pratica musicale e ricerca musicologica. Quando e come è nato il suo interesse per Giuseppe Tartini?
Il mio primo interesse per Giuseppe Tartini è nato grazie al mio Maestro Giovanni Guglielmo, con il quale mi sono diplomato in violino nel 2000. All’epoca Guglielmo, grandissimo interprete e studioso tartiniano, mi propose una sonata di Tartini per il programma di diploma e, attraverso quella prima esperienza, riuscì a trasmettermi una certa curiosità verso questo autore. Qualche anno dopo, nell’ambito dei miei studi universitari, decisi di laurearmi in Filologia musicale e scelsi di approfondire alcuni concerti di Tartini per la mia tesi.
Quella fu l’occasione per confrontarmi direttamente con le fonti settecentesche e per iniziare a unire i due percorsi, quello pratico e quello teorico, nel segno comune del compositore piranese.

 

Nella sua tesi di laurea e nel lavoro per l’Edizione Nazionale delle Opere di Tartini, pubblicata dall’editore tedesco Bärenreiter, ha avuto modo di approfondire direttamente le fonti. Qual è la scoperta o l’intuizione più significativa che ha tratto dalla sua ricerca?
Il contatto diretto e continuo con le fonti cartacee, in particolare con quelle conservate nella Biblioteca del Santo a Padova, ha cambiato il mio modo di leggere un testo musicale e mi ha insegnato che alcuni aspetti della musica si possono comprendere solo nel contatto fisico con le fonti. Mi sento piuttosto prudente nel parlare di “scoperte”, tuttavia posso dire di aver approfondito molto i concerti per violino con aggiunta di strumenti a fiato e di aver chiarito la natura “evolutiva” di queste opere. Quando Tartini le scriveva in autografo, quello era solo un primo passo verso le molte versioni che poi se ne sarebbero realizzate a Padova o in altre sedi europee.

 

Da interprete e da ricercatore, che cosa la affascina di più della musica di Tartini?
La bellezza dei suoi movimenti cantabili, l’unicità delle sue cosiddette “piccole sonate” per violino e il legame della sua musica con la parola, così ben espresso nella presenza di motti poetici che suggeriscono la metrica del testo musicale. E poi Tartini è un intellettuale con una personalità complessa e spigolosa, affascinante come la sua musica.

 

La “Scuola delle Nazioni” fondata da Tartini a Padova riuniva musicisti di tutta Europa, in un’epoca in cui gli scambi culturali erano lenti e difficili. In un mondo oggi così connesso, che cosa può insegnarci ancora quello spirito di dialogo e di confronto tra culture e scuole musicali?
La Scuola di Tartini è un magnifico esempio di didattica essenziale e universale, aperta sia ad amatori sia a grandi talenti e professionisti. In un periodo di due anni, tale era la durata del suo “corso”, Tartini riusciva a trasmettere a un pubblico globale ed eterogeneo il proprio messaggio, e tutti unanimemente riconoscevano in lui una guida illuminante. La diffusione del linguaggio tartiniano attraverso i suoi studenti in tutta Europa è la prova che le idee e le competenze, se trasmesse con passione e metodo, si diffondono rapidamente.

 

Se dovesse descrivere Tartini a un pubblico che lo conosce solo di nome o per la sonata Il trillo del diavolo, quale immagine sceglierebbe come prevalente: quella del virtuoso, del didatta o del pioniere?
L’immagine di Tartini violinista è sempre quella prevalente. Alle sue spalle metterei le tantissime opere ancora da scoprire e da suonare anche per il pubblico di oggi.

 

I volti di Femart: Chiara Granata

L’arpista Chiara Granata, interprete di musica antica e barocca, concepisce l’arte come un dialogo vivo tra performer e spettatore. In Barocco in bilico la sua visione prende forma: il concerto non è solo ascolto, ma esperienza creativa, dove percorsi ed emozioni si intrecciano liberamente, senza schemi imposti. Un invito al pubblico a riscoprire meraviglia, sorpresa e libertà di interpretazione in ogni nota.

 

Lo spettacolo Barocco in bilico mette in dialogo due mondi apparentemente lontani, come l’arpa barocca e i trampoli. Da dove nasce l’idea di unire strumenti e linguaggi così diversi?
Quando suono o racconto la musica del primo barocco cerco sempre di rendere evidente la sua componente di rottura rispetto alla tradizione, alle aspettative d’ascolto, alle convenzioni. In un termine è musica d’avanguardia, e i suoi autori ne sono consapevoli: sentono di superare continuamente un limite, rompendo continuità ritmica, consequenzialità armonica e omogeneità sonora. L’arte dei trampoli rende evidente qualcosa di analogo: il superamento delle proporzioni corporee, la tensione continua per mantenere l’equilibrio. Questo slancio verso l’estremo è ciò su cui si costruisce Barocco in bilico.

 

Come è nata e si è sviluppata la collaborazione con la performer Giulia Sarah Gibbon?
Con Giulia ci siamo conosciute diversi anni fa durante una produzione d’opera in Germania, L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi. Nessuna delle due aveva un ruolo da protagonista nello spettacolo: io ero tra gli strumenti del basso continuo, lei preparava le parti sceniche e compariva in alcune sequenze ginniche. Eravamo però la parte fondamentale di quel motore che muove e tiene insieme lo spettacolo. Ogni giorno eravamo le prime ad arrivare in teatro: lei iniziava il riscaldamento, io l’accordatura. Siamo prima di tutto lavoratori: sottoponiamo il nostro corpo a rigorosa preparazione, le nostre giornate sono accomunate dall’affinamento costante del gesto. Questo avviene fuori dalla scena, e abbiamo provato a metterlo in scena.

 

Rigore e libertà espressiva: nella sua esperienza di interprete di musica antica, come si traduce questa tensione?
Passiamo tanto tempo sulle fonti: capire un segno, darne un’interpretazione plausibile, sagomare la propria performance tenendo conto delle cronache storiche. Dopodiché il nostro è un lavoro di traduzione: ossia, compreso il gesto bisogna renderlo evidente con un linguaggio chiaro. Questo capita a tutti gli strumentisti, ma a maggior ragione con l’arpa, che ha pochissime fonti dirette, esegue repertorio tratto da altri strumenti e quasi mai può prendere una partitura ed eseguirne tutte le note. Deve tradurre nel proprio idioma il contenuto musicale. È come la ricostruzione dello scheletro di un dinosauro, ma con solo un paio di ossa. La libertà creativa è questa immaginazione che porta a completare lo scheletro… in modo che stia in piedi.

 

La riflessione di Frescobaldi, Non senza fatiga si giunge a fine, è il filo conduttore del progetto. C’è un legame tra questa “fatica” creativa e la performance artistica?
Nel nostro spettacolo siamo partite da questa doppia negazione che Frescobaldi appunta alla fine di una composizione: “non senza fatica”. È un’annotazione molto singolare perché sposta l’attenzione – cosa molto rara in quegli anni – sull’esecutore. Ci è sembrato che in quella descrizione ci possa essere una visione estetica: prima ancora del suono c’è la tensione fisica e mentale nel restituire la composizione, e questo ha già un valore estetico prima della bellezza della musica. In Barocco in bilico mettiamo in scena anche ciò che appartiene a questa dimensione, che di solito è dietro le quinte. È la ripetizione nello studio di un musicista, il riscaldamento del corpo per il ginnasta. Mettiamo in scena persino l’ascesa sui trampoli, che di solito nessuno vede, perché incontriamo i trampolieri già elevati e nessuno sa come salgono! L’ascesa sui trampoli è forse il momento più forte del nostro spettacolo.

 

Barocco in bilico invita il pubblico a oscillare tra ascolto e visione, tra concerto e performance. È anche un invito a ripensare il modo in cui percepiamo e viviamo l’arte dal vivo?
Abbiamo costruito uno spettacolo in cui i rimandi tra le nostre arti sono molti, e i quadri in cui li abbiamo organizzati raccontano i diversi momenti della creazione della performance: costruire, vagare, comunicare, allestire, tentare e riprovare, osare. Sono tutte parole in cui qualunque musicista o performer, al di là della propria specifica arte, si può rispecchiare. Tutto questo però è solo suggerito, rimane astratto, e ciascun spettatore può muoversi con libertà tra ascolto e visione, costruendo abbinamenti che noi non abbiamo previsto. Di sicuro c’è l’idea di ripensare la forma del concerto, che nella sua forma prevedibile spesso rischia di mancare l’oggetto, ad esempio la meraviglia, che è l’obiettivo del barocco. Tutto questo senza fare pedagogia, lasciando sempre lo spettatore in una posizione libera e creativa.

 

Lei ha firmato uno studio fondamentale sull’arpa Barberini, strumento leggendario del Seicento romano. Cosa la affascina di più di quell’arpa “grande, tutta intagliata e dorata”?
Quello che mi affascina di questo strumento, di cui ora sappiamo molte cose, è proprio ciò che non sappiamo. Abbiamo di fronte un’arpa così imponente, con una sorta di scena di teatro scolpita nella colonna, il colore nero e oro che comunica solennità e importanza, e la tavola armonica incurvata dalla tensione delle corde per più di 400 anni. L’arpa Barberini è un grande spettacolo per gli occhi, ma è muta: non si può rimettere in tensione uno strumento così antico, quindi il suono non lo sentiremo mai. Quest’arpa ci racconta il nostro rapporto con il passato: lo osserviamo, cerchiamo di avvicinarlo per comprendere l’umanità che ci ha preceduto, ma non lo raggiungiamo mai del tutto.

I volti di Femart: Iskon ensemble

Dalla genesi del nome Iskon alle esperienze tra festival, collaborazioni internazionali e la prima esibizione in Italia, Milanka Nastasović – voce e portavoce dell’ensemble – ci racconta la storia, le passioni e le ispirazioni che da sempre animano il gruppo. Le sue parole ci offrono uno sguardo profondo nel mondo dell’ensemble, dalla scoperta dei suoni antichi ai legami culturali che ispirano i musicisti, fino alla gioia di far rivivere la musica tradizionale balcanica davanti a un pubblico sempre nuovo, in ogni angolo del mondo.

 

 

Come è nato Iskon e qual è l’origine e il significato del nome?
La parola iskon indica l’inizio di qualcosa, la fonte da cui tutto ha origine, la radice di ogni cosa. In serbocroato il termine ha una sfumatura arcaica e poetica, evocando la formula biblica “in principio…” o l’incipit delle fiabe “c’era una volta…”.
Ci siamo conosciuti durante gli studi universitari, tra il 1999 e il 2000. Erano tempi difficili: il Paese era appena uscito dalla guerra e dalla dittatura, la povertà era diffusa e viaggiare restava complicato. La musica, per noi, è stata un mezzo per restare normali, per sentirsi bene e per affrontare una realtà cupa. Ci ha anche aperto le porte all’estero, permettendoci di partecipare a festival, incontrare altri musicisti e vivere nuove esperienze, proprio come fanno i giovani di ogni tempo.

 

 

 

Tra i tanti strumenti della tradizione balcanica che suonate, ce n’è uno che sentite rappresentare davvero l’essenza del vostro suono?
Domanda difficile! Ne abbiamo scelti due: la frula e il kaval, strumenti a fiato strettamente imparentati e con un antenato comune. Insieme al gusle (violino monocorde), rappresentano gli strumenti tradizionali di base, i più diffusi in tutto il territorio balcanico. La frula e il kaval erano suonati dai pastori durante la custodia delle greggi e, nelle zone rurali, erano utilizzati nei momenti di svago, nei rituali o per accompagnare le danze, spesso insieme alle cornamuse. Il kaval, con il suo suono ruvido e scuro che ricorda la voce umana, è perfetto per accompagnare un cantante o improvvisare melodie alternandosi con altri kaval.
Gli altri strumenti si sono aggiunti solo in seguito: all’inizio, erano questi due a sostenere la voce umana. Gli strumenti moderni “occidentali” arrivarono solo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, soprattutto dopo la Grande Guerra.

 

 

 

La vostra missione è mantenere viva e attuale la musica tradizionale. Come reagisce il pubblico di fronte al vostro lavoro di ricerca?
Alla gente di solito piace vedere il risultato finale, immediatamente fruibile, perché tutti noi cerchiamo il piacere istantaneo. Raramente si mostra interesse per il lungo e faticoso processo che porta a quel risultato: la ricerca della musica popolare antica richiede tempo e pazienza. Per noi, però, questo è la vera ricompensa, perché è un lavoro che amiamo.
La musica popolare si discute tra musicisti e musicologi, ma anche il pubblico spesso gradisce qualche spiegazione. Perciò, se lo spazio, il tempo e la disponibilità degli ascoltatori lo permettono, durante i concerti diciamo sempre qualche parola su ogni brano. In genere, il pubblico apprezza.
Abbiamo inoltre l’abitudine di adattare le esecuzioni all’atmosfera del luogo e all’energia che gli ascoltatori sanno trasmettere.

 

 

 

Collaborate spesso con artisti internazionali. Alcune di queste collaborazioni hanno avuto un impatto particolarmente significativo sul vostro lavoro?
Nel corso dei suoi 24 anni di attività dell’ensemble, abbiamo incontrato un piccolo cerchio di persone, non tutte provenienti dal mondo della musica popolare, eppure tutte capaci di apprezzare ciò che facciamo, così come noi apprezziamo il loro lavoro.
Durante i festival, ci siamo ritrovati con loro in jam session notturne, al di fuori dei programmi ufficiali: momenti intensi e indimenticabili che hanno profondamente influenzato la nostra visione della musica. Da queste esperienze è nata l’idea di realizzare un album insieme ai nostri amici sparsi in tutto il mondo.
La pandemia ci ha spinti a collaborare online, trasformando una necessità in opportunità, fino a dar vita al nostro album Drugovanje, pubblicato nel 2021, con la partecipazione di musicisti italiani, francesi e messicani. Un vero incontro di culture e sonorità diverse, che celebra l’amicizia, la condivisione e il dialogo musicale oltre ogni confine.

 

 

 

Questa è la vostra prima volta in Italia. Come vi sentite a presentare la vostra musica al pubblico italiano?
Sì, è la nostra prima volta, e nell’ensemble si respira uno stimolante fermento: un misto di curiosità, attesa e un pizzico di nervosismo. Va detto che non siamo musicisti professionisti, ma abili dilettanti, come lo erano i musicisti popolari di un tempo. Conoscendo la qualità degli artisti presenti al festival, ci sentiamo davvero onorati di esibirci.
Con il pubblico straniero, la sfida principale è sempre la lingua: le canzoni non possono trasmettere pienamente il significato e la bellezza dei testi, quindi è la melodia a “fare il lavoro duro” – e lo fa sempre con efficacia. Gli amici italiani che abbiamo incontrato ci sono sembrati persone brillanti, positive, spensierate e di buon cuore. Speriamo che questa atmosfera ci accompagni durante il nostro concerto, permettendo a noi e al pubblico di divertirsi e di incontrare persone meravigliose.

Quali aspetti dell’Italia trovate più affascinanti o piacevoli?
Parlare dell’Italia non è facile: i superlativi sono così tanti e c’è il rischio di scivolare nei cliché. È un Paese bellissimo, e per di più così vicino a noi. Le persone dell’ex Jugoslavia tendono ad amarla più di molti altri Paesi “occidentali”. La nostra storia culturale è da sempre intrecciata a quella della Repubblica di Venezia: la Serenissima ha lasciato profonde tracce nella poesia popolare, nella narrativa e nella memoria collettiva dei nostri racconti. L’antico termine con cui si indicavano gli italiani era “latini”, e in alcune regioni è ancora in uso.

I volti di Femart: intervista a Meredith Airò Farulla

Meredith Airò Farulla, attrice di grande esperienza e sensibilità teatrale, si racconta in questa intervista, svelando anche il suo approccio alla scrittura di Jane Austen, che considera una «una donna del proprio tempo, pur avendo, su quel tempo, uno sguardo estremamente lucido e moderno». Per l’attrice, le eroine austeniane sono personaggi complessi e sfaccettati, con lati di luce e lati d’ombra, sempre capaci di insegnare qualcosa sul coraggio, sull’intelligenza e sulle emozioni.
La lettura che darà delle opere della scrittrice inglese nel nostro Omaggio a Jane Austen del 4 ottobre, in occasione del 250 anniversario della nascita, ne farà emergere questi tratti, restituendo al pubblico la profondità e la modernità della sua scrittura.

 

 

 

Quando ha capito che il teatro sarebbe stato il suo lavoro? C’è stato un momento preciso o è stata una decisione che è maturata poco a poco?
Il teatro mi è sempre piaciuto, fin da piccolissima. Ho sempre fatto dei corsi a scuola, elementari, medie e liceo, e quei momenti sono tra quelli che ricordo meglio di tutta la mia infanzia e adolescenza. Ma non ho pensato al teatro come professione fino alla fine delle scuole superiori. Dopo la maturità volevo iscrivermi a filosofia, ma alla fine – non so spiegarmi il perché, forse un’intuizione – ho deciso di tentare il provino per entrare all’accademia teatrale. Quell’anno non sono stata presa. Così mi sono messa d’impegno, ho frequentato dei corsi più seri e ho riprovato l’anno dopo. Sono entrata all’allora Accademia Teatrale Veneta di Venezia. È stata l’esperienza più forte della mia vita.

 

 

 

Nel suo percorso formativo si è confrontata con la Commedia dell’arte che lascia estrema libertà espressiva, ma richiede una rigorosa disciplina. Cosa la affascina di più di questo linguaggio teatrale e cosa invece trova più difficile da restituire al pubblico di oggi?
Ho scoperto la commedia dell’arte poco prima di iniziare a frequentare l’accademia e per me è stata una folgorazione. Quello che all’epoca mi aveva lasciata a bocca aperta era l’energia sprigionata dall’uso che gli attori facevano del ritmo. Nelle parole e nei gesti non c’era pensiero e non c’era nulla di naturalistico, era come una musica, era come venire trascinati in una danza in cui a ogni passo c’è una sorpresa che non ti aspetti. Quello che vedevo non assomigliava a nulla che avessi mai visto prima. E poi c’era la maschera. Ci sarebbero migliaia di pagine da scrivere su questo argomento, mi limiterò a dire che, come mi è stato trasmesso, la maschera non nasconde ma rivela, è una porta per un mondo che non ha a che fare con il razionale, è una torcia che illumina alcuni colori dell’animo umano che di solito tutti preferiamo non guardare.
Durante gli studi in accademia avrei ritrovato tutti questi elementi meravigliosi che mi avrebbero aiutato moltissimo anche in altre forme di teatro. Infatti, parlando in termini più concreti, il lavoro di maschera e di commedia dell’arte è anche un’ottima base tecnica per un attore: le azioni, le parole, tutto deve essere eseguito con estrema precisione in modo da essere comprensibile per lo spettatore, per divertire, sorprendere, commuovere. È una forma di teatro molto faticosa e che regala molta soddisfazione.
Nonostante la forza di questo linguaggio, in grado di di arrivare senza filtri, negli spettacoli di commedia dell’arte che si vedono ancora oggi le storie raccontate fanno spesso riferimento a un passato che ha ormai poco a che fare con la società contemporanea e con i problemi che affronta. Ci sono, tuttavia, registi e compagnie che provano, attraverso il linguaggio della commedia, a guardare il mondo di oggi, a costruire caratteri che conservino la sostanza di quelli tradizionali ma che abbiano una forma più attuale. Non è facile, considerando anche l’immagine stereotipata che ha la commedia dell’arte per gran parte del pubblico.

 

 

 

Durante i suoi studi ha approfondito lo studio della parola, della sua musicalità e della sua forza evocativa: che cosa significa, per lei, dare corpo e vita alle parole in scena
Uno dei principali fraintendimenti di chi comincia a fare teatro e ad affrontare i testi è che le parole siano cose che si dicono. Viene naturale pensare che il testo vada parlato mentre in scena si fanno delle cose, come spostare oggetti, camminare su e giù, fumare una sigaretta. In un teatro ideale, tutto ciò che è in scena dovrebbe essere azione, qualcosa che succede e che modifica lo stato psicofisico degli attori e del pubblico. E così anche le parole. Il testo dovrebbe sempre agire, innanzitutto sull’attore che lo dice. La parola, infatti, non è solo significato e non è solo racconto. Ha un suono, un ritmo, una sua energia che può diventare poetica. L’atto del parlare è, prima di tutto, un fatto fisico. Implica il respiro, il suono della voce, l’articolazione delle consonanti, coinvolge organi, ossa, muscoli ed è, di per sé, una cosa complicata e faticosa per il corpo.
Ogni attore sa bene che i segni scritti su un foglio bianco sono delle tracce che da sole non fanno accadere niente, ma che, se lette nel modo giusto, come una mappa, possono indicare direzioni preziose.

 

 

 

Nel 2018 ha preso parte allo spettacolo La Tragedia di Claudio M, opera contemporanea e teatro, diretto da Nynke van den Bergh nel quale musica antica e nuova si intrecciano nello stile del “cantar parlando” per rivelare, attraverso la lettura delle sue lettere, l’animo di Claudio Monteverdi, uomo ironico e artista geniale. Cosa ha rappresentato per lei questa esperienza e, da attrice, cosa ha trovato di affascinante e attuale nella musica del “Divino Claudio”?
La Tragedia di Claudio M è stata un’esperienza molto particolare. È stato stimolante vedere in prima persona come lavora un ensamble folto di persone con competenze diverse e diverse provenienze: cantanti, musicisti, tecnici. Noi attori avevamo un ruolo di raccordo fra le varie scene. Ma ci era anche stato richiesto di cantare in coro in un paio di momenti e ricordo con affetto l’aiuto e il sostegno dei cantanti per svolgere questo compito.
Ammetto che, fino a prima di quell’esperienza, non conoscevo la musica di Monteverdi e, all’inizio, l’avevo percepita come qualcosa di distante dal mio mondo. La apprezzavo ma sentivo di non avere gli strumenti per capirla. Poi, con il tempo e con l’ascolto, credo di essermene avvicinata. La forza emotiva che mi trasmettevano alcuni madrigali, la teatralità spiccata e drammatica di arie come Il lamento di Arianna hanno finito per sorprendermi e commuovermi. Avevo anche imparato qualche pezzo a memoria, a forza di ascoltarlo, e mi capitava di canticchiarlo fra me e me fuori dalle prove…

 

 

 

Da diversi anni affianca al lavoro di attrice, l’attività di insegnante: che cosa cerca di trasmettere a chi inizia questo mestiere e cosa, a sua volta, impara da loro?
Il lavoro di insegnante è arrivato quasi per caso: mi è stato proposto un ruolo da assistente che, negli anni, mi ha portato a insegnare. L’ho sempre considerato un mestiere molto delicato e pieno di rischi. Un insegnante può essere determinante nella vita di una persona, così come può fare dei danni. Io cerco di fare del mio meglio. Prendo molto dai maestri che considero i più importanti nella mia formazione, all’inizio credo venga istintivo “rubare” non solo gli strumenti tecnici ma anche il modo di insegnare. Col tempo, poi, ognuno scopre il proprio modo, che comunque contiene in sé tutta l’esperienza accumulata. Avendo iniziato solo da alcuni anni il mio percorso di insegnante, cerco di essere il più possibile un esempio positivo per gli allievi, una sorta di sorella maggiore che ha un po’ più esperienza. Mi piace parlare loro di quello che ha funzionato e che funziona per me a livello tecnico, di quanto è importante lavorare tutti i giorni con fiducia – nonostante a volte sembri inutile – e di quanto lavoro e fiducia, alla fine, paghino.
Insegnare è imparare due volte, diceva qualcuno. Ed è vero. Da quando insegno ho imparato molte più cose di quante ne avrei immaginate. Ho fatto degli errori, naturalmente, e ne faccio ancora perché è attraverso gli errori che si impara. Penso che gli allievi siano uno specchio dell’insegnante, nelle loro fragilità ma anche nei loro progressi; quando uno di loro si fida del lavoro e riesce a fare anche un solo piccolo passetto in avanti per me è una cosa bellissima.

 

 

 

Il prossimo 4 ottobre sarà impegnata nell’evento Omaggio a Jane Austen con il soprano Francesca Biliotti (con cui ha già lavorato nello spettacolo La Tragedia di Claudio M) e Elisa La Marca alla chitarra. Nei testi che interpreterà, emergono le contraddizioni di Jane Austen tra ironia, romanticismo e critica sociale: qual è l’aspetto della scrittura della Austen che più la colpisce e che desidera far arrivare al pubblico attraverso la sua lettura?
Di Jane Austen ho amato soprattutto l’elegante ironia e l’intelligenza. Trovo i suoi romanzi molto teatrali, perché tutto in essi è scarno, essenziale. Non ci sono molte descrizioni ricche di particolari, la psicologia dei personaggi, invece, è delineata in maniera precisa e tagliente e ogni piccolo evento narrato determina scelte e cambiamenti. Le eroine femminili di Jane Austen, come tutti i personaggi nati da grandi scrittrici e scrittori, sono umane e complesse, hanno lati di luce e lati d’ombra, talvolta suscitano simpatia, talvolta risultano insopportabili. Emma Woodhouse, ad esempio, vive una profonda trasformazione nell’arco del romanzo, passando da un vanitoso egocentrismo, che soffoca e inganna la sua intelligenza, a una lucida e matura consapevolezza dei propri limiti ma anche dei limiti dell’intelligenza stessa, cui spesso sfuggono la mutevolezza e la complessità dell’animo umano. Elizabeth Bennet, invece, è descritta dalla stessa Jane Austen come “la creatura più deliziosa mai apparsa in un volume a stampa”. È una giovane donna dall’animo indipendente e dall’acuta intelligenza, pur senza essere una ribelle nel senso stretto del termine: è, infatti, perfettamente inserita nel sistema di valori della propria epoca, sa esprimere il proprio punto di vista con forza e andare contro corrente pur rispettando gli usi e le convenzioni sociali. Senza contare che il suo arco narrativo termina con un matrimonio.
Ho l’impressione che Jane Austen sia una donna del proprio tempo, pur avendo, su quel tempo, uno sguardo estremamente lucido e moderno. Lotta in quanto donna scrittrice per far pubblicare i propri lavori, deride con occhio attento e lingua affilata la superficialità e l’ignoranza di uomini e donne della società dell’epoca; ama però anche partecipare ai balli, vestire con eleganza e fare pettegolezzi. E non smette mai di credere nell’amore romantico, come scrive nelle lettere alla nipone Fanny Knight, dalle quali si può dedurre che Jane, pur non essendosi mai sposata, abbia fatto esperienza diretta del sentimento dell’amore e delle sue conseguenze.
Io mi sono innamorata di Jane Austen e mi auguro che, a chi ascolterà la selezione che ho fatto dei suoi testi, ne arrivi un piccolo onesto ritratto.